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L’art. 595 Codice Penale punisce il reato di diffamazione così disponendo: “chiunque, fuori dai casi indicati nell’articolo precedente (ingiuria), comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione è punito con la reclusione fino a un anno e con la multa fino a 1.032 €”.

La diffamazione ha due requisiti fondamentali: l’offesa dell’altrui reputazione, che comporta un danno all’immagine, all’onore o al decoro di un individuo, e la comunicazione dell’offesa ad una pluralità di persone. Il dolo richiesto, perché possa dirsi integrato il reato di diffamazione, è quello generico, ciò significa che è sufficiente la consapevolezza del diffamatore di scrivere o pronunciare una frase che lede la reputazione di un’altra persona, accompagnata dalla consapevolezza che le pronunciate raggiungeranno una molteplicità di individui. Affinché possa dirsi integrato il reato di diffamazione non è necessario, inoltre, che la vittima sia identificata con nome e cognome ed è, invece, sufficiente che la persona sia individuabile nell’ambito di una ristretta categoria di persone.

L’utilizzo non corretto dei cosiddetti social ha aumentato in modo esponenziale il rischio di commettere il reato di diffamazione nella fattispecie aggravata: “se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a 516,00 €”.

Si tratta di una condotta che può essere attuata “con qualsiasi altro mezzo”, cioè anche attraverso il web, e che può portare a diffondere il messaggio diffamatorio raggiungendo un numero indeterminato di soggetti. Infatti l’evoluzione tecnologica rende possibile la trasmissione di un messaggio ad un numero potenzialmente indeterminato di individui.

Con riferimento all’individuazione dell’autore del reato, la giurisprudenza prevalente sostiene che il commento diffamatorio non possa essere attribuito, in assenza di altre prove, al soggetto titolare dell’account. Per poter attribuire ad un soggetto la paternità di un commento diffamatorio diffuso a mezzo social è necessario che vi sia l’individuazione, da parte degli inquirenti, dell’indirizzo IP.

Pur in presenza di un nickname individuante l’autore del commento, tuttavia senza il dato oggettivo dell’indirizzo IP, si ritiene non individuabile con sufficiente certezza l’autore del reato in quanto prevale il dubbio che il nickname possa essere stato illegittimamente utilizzato (Trib. Rovigo, Sent. n. 331/2019; Cass. Pen., Sez. V, Sent. n. 22049/2020).

I rimedi per la vittima del reato

La vittima di diffamazione può trovare tutela sia in sede penale che in sede civile:

  • Tutela in sede penale: la vittima di diffamazione potrà sporgere querela e successivamente (laddove il procedimento dovesse proseguire con il giudizio a carico del reo) costituirsi parte civile nel procedimento penale ed ottenere quindi in questa sede il risarcimento del danno. Tuttavia è piuttosto frequente che il giudice penale si limiti a condannare il reo e a rimettere le parti avanti il giudice civile per determinare l’ammontare del danno risarcibile;

La vittima potrà anche attivarsi e chiedere, in via cautelare, il sequestro preventivo del sito che contiene il contenuto diffamatorio (Cass. Pen., Sez. V, Sent. n. 20644/2021), sempreché il contenuto non venga eliminato spontaneamente dall’autore.

  • Tutela in sede civile: la vittima di diffamazione può scegliere (anche senza la necessità di sporgere querela) di citare in causa l’autore della pubblicazione diffamatoria del fatto e chiedere in sede civile il risarcimento dei danni subiti a causa del contenuto della pubblicazione stessa.

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